Commenti di poesia

OGNI CENTO FANS AGGIUNGO UN NUOVO COMMENTO!

24 aprile, 2010

Ultimo sogno

Ultimo sognoDa un immoto fragor di carrïaggi
ferrei, moventi verso l'infinito
tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...
un silenzio improvviso. Ero guarito.

Era spirato il nembo del mio male
in un alito. Un muovere di ciglia;
e vidi la mia madre al capezzale:
io la guardava senza meraviglia.

Libero!... inerte sì, forse, quand'io
le mani al petto sciogliere volessi:
ma non volevo. Udivasi un fruscio
sottile, assiduo, quasi di cipressi;

quasi d'un fiume che cercasse il mare
inesistente, in un immenso piano:
io ne seguiva il vano sussurrare,
sempre lo stesso, sempre più lontano.
(
Giovanni Pascoli, Myricae, 1891, 1903)

Qual è l'ultimo sogno dell'uomo, quel sogno estremo oltre cui si cessa di sognare? Siamo su un confine, quello tra la vita e la morte, dove a tutto il trambusto dell'esistenza che sembrava infinito, si sostituisce, in maniera inaspettata, il silenzio. Il permanente fragore, la durezza quasi fastidiosa ed espressa dal suono nervoso, sia come significato sia come pronuncia, di schiocchi e fremiti, si esaurisce all'improvviso. E' quasi un'illuminazione insperata, è quasi un'esclamazione: ero guarito. La corsa verso l'infinito è finita: come l'alito su una finestra che scompare, così il male si dilegua. Anche i suoni della poesia si addolciscono nella rima ciglia - meraviglia che accompagna la visione della madre, da tempo morta. Non c'è spazio nemmeno per la sorpresa: sarebbe un movimento troppo brusco.
La seconda quartina è solo contemplazione: un lento movimento delle palpebre dischiude la visione dell'estrema pietà di una madre presente al capezzale. Una Pietà quieta, non sofferente: forse un'eco dell'archetipo della ricongiunzione ai propri cari, che da sempre permea l'animo umano. Ma la quiete della morte non ha affatto un significato negativo, l'ultimo sogno non è un incubo di inerzia e precipizio nel vuoto: ecco l'aggettivo del riscatto, sottolineato da un punto esclamativo: Libero! Una nuova illuminazione, con una parola quasi fanciullesca, quasi da gioco a nascondino, libero dopo una corsa verso la toppa, libero finalmente da qualsiasi affanno, persino dalla figura materna che viene contemplata ma non abbracciata, libero persino dalla volontà: volessi: ma non volevo. Inerte, perciò, ma di un'inerzia che non è immobile, che non è monumento di marmo freddo su una tomba. Al contrario, è un nuovo percorso, una vita nuova e misteriosamente indefinita: un fiume che si muove verso l'infinito, senza alcun ostacolo. L'affanno della vita precedente è annullato, ora siamo su un altro piano, dove non esistono carriaggi ferrei che ci trasportano, desideri e passioni che quasi ci manovrano e ci frustano. Siamo in balia del fruscio di un fiume, così leggero che sembra un alito di vento, un suono indefinito, un sussurro misterioso e vago che si perde nell'ignoto. Ecco allora l'ultimo sogno, libero dalle passioni, libero dalle figure che ci hanno donato la vita e ci seguono fino all'ultimo istante, quello della solitudine estrema. E' un sogno di libertà, l'ultimo sogno dell'uomo, o forse il primo e l'unico, ma riconosciuto solo alla fine.

10 gennaio, 2009

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)


E' fin troppo ovvio dire che in questa poesia, che fa da preludio all'omonimo romanzo, Primo Levi sollecita i lettori a riflettere sullo sterminio dei lager nazisti: lo sanno tutti. Certo, a differenza di altre poesie presenti nel blog, in questo caso è praticamente impossibile slegare il commento dal momento storico ma, considerato il fatto che purtroppo i genocidi avvengono anche ai giorni nostri, vedrò di fare una riflessione che in parte contenga anche spunti validi per ogni epoca: in fondo ogni poesia ha più valore perché è potenzialmente eterna.

La poesia apre con un appello diretto a tutti quelli che hanno la coscienza tranquilla, che vivono quasi senza prendere posizione su nulla: l'aggettivo tiepida, riferito alla casa, esprime bene questo stato di situazione intermedia, né calda né fredda, perfetta nella sua medietà, completata da cibi caldi e amicizie famigliari.
Dopo i primi quattro versi, arriva il pugno dello stomaco: considerate, dice il Primo Levi. Un verbo quasi scientifico, non dice ancora "pensateci", "dite la vostra": invita a guardare il più oggettivamente possibile e a fare una reale considerazione di uno stato vivendi a cui è costretto un individuo. Non sta parlando dell'uomo con la U maiuscola, della specie umana, ma proprio di colui che nel campo di concentramento fatica ("il lavoro rende liberi" è il motto del lager di Auschwitz), che si ammazza per un pezzetto di pane, che non trova quiete in niente e che infine può morire per un sì o per un no. Soffermiamoci su quest'ultimo aspetto: un'affermazione e un diniego. Siamo lontani anni luce dal tepore sereno e neutro dei primi quattro versi, siamo davanti ad una situazione "decisa", in il libero arbitrio non trova spazio.

Dopo la descrizione dell'uomo, ecco quella della donna, privata della sua bellezza fisica e della sua memoria, annichilita persino nel suo nome e nell'istinto materno e ridotta a scheletro di rana. Uomini e donne, quindi, defraudati delle loro caratteristiche umane e rimasti soli, tristi particelle corporali da vivisezionare: il lager ha rubato l'anima è ha lasciato solo corpi sofferenti.

Successivamente alla considerazione di tale scempio, non resta che un imperativo: è giunto il momento della riflessione, il momento del ricordo. Tutto quello che prima era considerato in maniera quasi analitica, forse per precepirne quella che chiamerei "assurdità reale", deve essere portato dentro il cuore, la ragione deve elevarsi a sentimento sotteso ad ogni azione quotidiana.
E' di nuovo un quadro famigliare quello che si presenta alla conclusione della poesia: l'inizio e la fine della giornata, il dialogo con i figli. Il comando è quello di custodire il ricordo della degenerazione umana, di ripeterselo nella mente come un rosario pagano. E' un'esigenza imprescindibile che sfocia in una maledizione contro tutti quelli che ne negano la necessità, che chiudono gli occhi e fanno finta di niente: la condanna all'indifferenza è fortissima, o almeno sembra tale, con i suoi strali che predicono malattia e disgrazie. Ma se pensiamo all'inferno descritto prima, quello inciso nel finale è comunque un disastro minore, un terremoto dentro un paradiso di normalità.
Sotto tale luce, lasciatemi una conclusione in tono sommesso, in un quadro generico e, se vogliamo, fuori contesto: non dico che ci sarebbe di giovamento se ci cadesse il soffitto in testa in testa, ma ogni tanto possiamo provare a fare crollare la Casa del Grande Fratello, seppellire la Talpa, fare sprofondare l'Isola dei Famosi, bruciare La Fattoria. Al loro posto, un attimo di pausa, a televisore spento, per guardarci negli occhi con chi ci sta vicino e ricordarci che esiste la realtà, con i suoi aspetti più scuri e con i suoi lati più luminosi, quella realtà dove ci siamo noi e altri come noi, di qualsiasi razza e condizione, ma sempre degni di essere uomini.

02 maggio, 2008

In morte del fratello Giovanni

In morte del fratello GiovanniUn dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentil anni caduto.

La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
(Ugo Foscolo, Sonetti, 1803)


Tema carissimo ad Ugo Foscolo, quello dell'esilio, unito alla tormenta interiore per la scomparsa di un caro consanguineo: questo il contenuto più esplicito del sonetto In morte del fratello Giovanni. Quando una poesia porta un titolo che fa preciso riferimento ad un evento storico o ad una persona, è inevitabile e doveroso fare qualche cenno biografico. Il sonetto è stato composto nel 1803, in memoria del fratello di Ugo Foscolo, Giovanni Dionigi, pugnalatosi di fonte alla madre per un grosso debito di gioco. Il poeta non era presente, essendo a Milano e non potendo per ragioni politiche raggiungere la madre a Venezia.

Ecco dunque l'inizio del sonetto: Un dì. Si potrebbe già dire tanto su queste due paroline poste all'inizio di questa veglia funebre: forse si potrebbe spenderci l'intero commento. Foneticamente un dì sembra il rintocco di una campana, un solo rintocco a morto. Come simbolo grafico, invece, la U ci fa precipitare in un abisso, in uno scivolo profondo, da quale si fatica a riemergere. Eppure un dì, pronunciato a qualsiasi funerale dal prete di turno, sarebbe un riferimento alla salvezza, alla vita eterna: un dì risorgeremo. Ma Foscolo non vuole fare una predica, non vuole consegnarci un paradiso immobile, bensì un irrequieto vagare fisico e dello spirito. Eccolo dunque promettere di andare una volta cessato l'esilio sulla tomba del fratello. Eccolo agognare una quiete che è ancora tormento per una vita spezzata come questo versi graffiati di enjambements. Il poeta fugge di gente in gente, ma brama la solitudine, uno stato che permette di vivere con forza qualsiasi sentimento, in questo caso la disperazione per la morte del fratello. Notiamo la coppia di vocaboli pietra e fior, che oltre a simboleggiare rispettivamente la tomba e la giovane età del defunto, contribuiscono a disegnare il contorno della disperazione, con una vivida potenza immaginifica. Ecco allora un'istantanea, una foto che arriva dal futuro: il poeta che piange sulla tomba di pietra, su cui immaginiamo che qualcuno abbia posato dei fiori. In quattro versi Foscolo ha dipinto un quadro.

L'altra figura forte del sonetto è la madre. Anch'essa sola, anch'essa presa nel ricordo funereo: ancora il sostantivo , in un verso in cui le parole tronche dominano (orsol). Figura tragica, che parla al morto dei vivi, di quello che gli resta: un figlio lontano, in esilio. E proprio questo figliuolo, poeta in fuga, tende le mani agli affetti più cari, da lontano, invocando una tregua contro il destino avverso. Desiderio di morire, quindi, che pare direttamente evocata dalla madre, archetipo di tutte le consolazioni. Proprio questa madre - morte, che apparenta tutti gli uomini, è l'unica speme che resta al poeta, un Foscolo che non crede in Dio, ma che nella speranza della morte trova un punto di arrivo, come quando un bambino, stanco di una lunga passeggiata, posa il capo sul petto della mamma e lì si addormenta quieto.

08 gennaio, 2008

S'i' fosse foco

S'i' fosse foco, ardere' il mondo;
s'i' fosse vento, lo tempestarei;
s'i' fosse acqua, i' l'annegherei;

s'i' fosse Dio, manderei 'l en profondo;
s'i' fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ' cristiani embrigarei;
s'i' fosse 'mperator, sa' che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.

S'i' fosse morte, andarei da mio padre;
s'i' fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi' madre.

S'i' fosse Cecco, com'i' sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.

(Cecco Angiolieri, Rime, 1292 - 1304)

Ci sono dei poeti che restano nella storia della poesia con un solo componimento: è il caso di Cecco Angiolieri, il cui verso iniziale di questa poesia , "S'io fosse foco, ardere' il mondo", è conosciuto da chiunque abbia una seppur minima educazione letteraria.
Senza dubbio la prima parte della poesia in questione è la più conosciuta: due strofe piene di iperboli che in otto righe riassumono tutta la cosmologia del suo tempo, il Medioevo . Con questa poesia, chi pensa che ci siano state epoche di oscuramento totale della ragione e dell'ironia, ha il suo benservito. Cecco ci porta su una giostra, dentro un gioco quasi infantile, ma anche sempre di moda: il gioco del "Se fossi". E come un bravo giocatore spara subito in alto: se fossi fuoco brucerei il mondo. Comincia con un elemento purificatore per eccellenza e lo usa per una distruzione, alla stessa stregua parla del vento e dell'acqua. Forse Cecco, spirito libero e dissacratore, ci sta dicendo che non c'è nulla da fare: si nasce con certe caratteristiche, e qualsiasi forma noi possiamo assumere, siamo sempre noi. E allora, se persino fosse Dio, non farebbe altro che sprofondare il mondo, mandarlo a picco. Dopo essere salito così in alto, che più alto non si può, col gioco del "Se fossi", Cecco torna a terra. Dalla natura è balzato alla metafisica, ora tocca all'umanità. Se la prende con le due massime entità del Medio Evo, il Papato e l'Impero. Anche qui non si placa la brama distruttrice: tagli di teste e impiccagioni, sempre in tono canzonatorio.
Se il primo verso della seconda strofa, riferito al Papa, richiamava l'ultimo della prima, quello dell'entità divina, il primo della terza, la morte, riprende l'ultimo della seconda, le decapitazioni capitali. Ed ecco allora il "S'i fosse morte" che porta Cecco a vestire i panni di una specie di terribile clown parricida, che con una agile rimbalzo raggiunge suo padre, e subito dopo il "S'i fosse vita", con una fuga da entrambi i genitori in maniera altrettanto repentina. A questo punto, come Hitchcock nei suoi film, entra in scena il regista del gioco, Cecco. Seguendo la logica dovrebbe per lo meno spararsi un colpo in testa o attaccarsi ad una macina e gettarsi in un lago. Ma c'è invece la boutade finale: Cecco il distruttore non è altro che uno scavezzacollo che ama rincorrere le belle donne e tutto quello che ha detto prima, si rivela per quello che è sempre stato, un bel gioco. Queste sono le parole rivelatrici dello scherzo, le ultime parole, forse metaforicamente giovani e leggiadre, che sono le uniche che contano in confronto a quelle precedenti, già vecchie e laide.

Da questo divertito e canzonatorio scherzo in versi possiamo trarre alcuni brevi spunti. Il primo è quello del grande potere della parola. La parola come fantasia, immaginazione che ci fa essere più grandi della natura: banalmente nessun vulcano, per quanto potente e distruttivo, può pensare "se fossi Cecco farei…" perché il vulcano non ha immaginazione né desideri. E' un discorso trattato in maniera filosofica da Kant quando parla del sentimento del sublime. Qui il tono e l'argomento è molto diverso, ma la sensazione può essere la stessa: l'uomo può sognare e decidere, il vento non ha volontà, non può scegliere se soffiare o chetarsi.
Un altro spunto può essere il tema della diversità. Lo cogliamo nella seconda e nella terza strofa. Cecco non fa le cose che fanno gli altri, anzi, le capovolge. Si traveste da serial killer e corre per il mondo con la sua ascia insanguinata. E' la parte più urtante e dissacrante della poesia, perché tocca gli aspetti familiari. Ma è nella terza strofa che si svela nel pieno il tema: nei due verbi andarei, fuggirei, c'è tutta la storia di un uomo che non ha il suo posto, che in fondo è in una sorta di limbo, in una crisi di identità che è forse l'inizio ed il corso del gioco del "Se fossi". E come ci si libera dall'affanno di questa crisi? Un asceta risponderebbe con parole illuminate che indicano la via della meditazione, ma Cecco non è un monaco o un filosofo idealista: sceglie la strada della carnalità. E così lo ricordano i critici d'oggi, uomo dedito al dado, alla taverna e alle donne, come egli stesso si descrive in altre rime. Ma lui, se fosse stato qui, avrebbe forse scosso il capo e bruciato tutti quei libri di critica e distrutto anche questo commento, che in fondo non vale niente in confronto alla bellezza di una ragazza giovane e leggiadra che danza per la via.

22 settembre, 2007

A Silvia

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
(Giacomo Leopardi, Canti, 1828)

Mi piace partire da uno stralcio del 1828 dello Zibaldone, il celebre quaderno di appunti e pensieri di Leopardi: "una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare […] quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti […] fanno in voi un'impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate mai di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima[…] si aggiunga il pensiero dei patimenti che la aspettano […] della vanità di quelle care speranze […] ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi".

I temi di questa poesia sono racchiusi in questo stralcio: la speranza e il tramonto delle illusioni. Lascio ai professori amanti della storiografia spiegare che dietro al nome di Silvia si cela Teresa Fattorini, figlia del cocchiere dei Leopardi e morta giovane.
Stiamo sui versi: la prima parte è evocativa di una gioventù lieta, ma anche pensosa, quasi a presagire la sventura successiva. Eppure il mondo intorno a Silvia sembrava perfetto: il perpetuo canto, il cucito con le compagne e un avvenire vago, come quello di un qualsiasi adolescente che si rispetti.
Dall'altra parte, ecco lo stesso poeta, Giacomo Leopardi, che dal balcone ascolta e guarda, partecipe di quella vaghezza che rassomiglia tanto alla felicità. Nello sguardo e nel cuore, tutto si riempie di indefinito e di orizzonte: il mare da lungi, le speranze. Ma poi, secco come lo spezzarsi di un ramo, sale il verso centrale, lo snodo verso il tramonto di tutte le illusioni: O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?
E' quasi un atto di accusa verso la natura che prima illude e poi disillude: di nuovo Silvia, ma questa volta combattuta (che combatte) e già vinta ancora prima che l'erba ingiallisca.
E' la morte di Silvia, la morte della speranza che avviene all'apparir del vero. E' come se la speranza tramontasse davanti all'aridità e alla potenza della ragione, quella ragione che alza il velo dei dolci inganni per mostrare una tomba ignuda, ancora da lontano, nel prolungamento d'un ricordo che fa rivivere Silvia, ma che è anch'esso illusione.
Di questo ci sta parlando Leopardi, dipingendo una delle figure più immortali di tutta la poesia italiana: della speranza che nasce nel maggio della vita e tramonta agli inizi dell'autunno, di una breve stagione in cui si pensa di potere ordire la trama di un ancorché vago futuro e della rottura dell'incantesimo, alla caduta delle illusioni giovanili.

C'è tutto il pessimismo leopardiano, la sua concezione della vita come sofferenza condita da una breve stagione di felicità: in fondo dietro a Silvia c'è sempre il poeta, un po' come in quei ritratti in cui si dice che si celi il ritratto dell'autore (la Gioconda di Leonardo, ad esempio). La bellezza di questa poesia è proprio in questo doppio gioco: il fondere un episodio realmente accaduto, la morte di Silvia, con quella che è la vicenda tragica di tutte le umane genti e soprattutto quella del poeta stesso, stupendamente razionale. C'è il passaggio dal particolare di Silvia, all'universale del genere umano, da una ragazza che muore giovane alla accidentalità della specie umana. L'eccezionalità di Leopardi sta nel fare alta filosofia con linguaggio poetico: insomma, fa tutte e due le cose più difficili contemporaneamente, e le fa bene entrambe. Poi potremmo discutere del pessimismo, dissentire, toccarci scaramanticamente, ma queste cose lasciano il tempo che trovano: forse sono ancora peggiori delle illusioni, sono sciocca volontà di non sentire e non ascoltare chi la pensa in maniera diversa da noi.

12 maggio, 2007

Carme LXXII - Disinganno

Una volta dicevi che amavi soltanto Catullo,
o Lesbia, e non volevi prendere Giove al posto mio.
Ti ho amato allora non solo come la gente comune ama l'amante,
ma come un padre ama i figli e i generi.
Ora ti conosco: perciò benché brucio ancora di più,
tuttavia tu sei per me di gran lunga più spregevole e più insignificante.
Come può essere, dici? perché un'ingiuria tale
costringe l'amante ad amare di più, ma a volere bene di meno.
(Catullo, Liber)

C'è chi dice che ogni poeta scriva in realtà sempre la stessa poesia. Così Catullo, in questo Carme, ripete in fondo lo stilema che gli ha regalato fama e immortalità: t'odio e ti amo.
Il soggetto femminile è Lesbia, donna con la quale Catullo vive un rapporto contrastato, anche per l'infedeltà congenita e i costumi molto libertini di lei. Eppure un tempo Lesbia era davvero innamorata del poeta, tanto da dire di preferirlo anche al sommo Giove. Peccato che allora Catullo nutrisse solo un amore filiale, un sentimento d'affetto per la ragazza. Ora, nel tempo presente della poesia, la situazione è ribaltata: è il poeta che ama la Lesbia, mentre lei si mostra alquanto fredda. I tempi cambiano, arriva il disinganno: una volta, esordisce la poesia, ma quella volta è ormai passata, ora Lesbia è un'altra persona, non coglie la passione di Catullo, si limita a un commento che è come una barriera "come può essere?" Al posto di un'affermazione d'amore è restata una domanda di incomprensione. E al poeta, povero amante non corrisposto, non resta che amare più forte.

Il segreto del successo imperituro dei carmi catulliani è nelle sue frasi incisive, che restano nella memoria collettiva: il già citato ti odio e ti amo, ma anche il finale di questo carme: una tale offesa costringe l'amante ad amare di più e a volere bene di meno. Stupefacente modernità, il linguaggio a slogan di Vasco Rossi è lì ad un passo. La capacità di descrivere in pochi brevi versi una situazione amorosa non è così comune: l'innamorato è solitamente prolisso, parla continuamente del suo oggetto amoroso, vero o immaginario. Catullo in poche righe dipinge un quadro in cui la passione è perfettamente raffigurata in tutte le sue contraddizioni: a volte più si ama e meno si è amati, quasi tutti hanno provato a trovarsi in tale situazione. C'è chi sostiene che questa sia una poesia molto razionale, per la presenza della temporalità lineare, per l'accenno alla conoscenza, ora ti conosco, e per il disprezzo verso Lesbia che non comprende il fuoco del poeta. In verità parlerei di più di orgoglio maschile: disistima per l'amata, certo, ma poi non c'è affetto, sentimento e razionalità; è l'amore che spacca tutti i canoni di ragionevolezza, che fa sì che anche i duri, come canta il già citato Vasco, piangano contro i muri.

27 aprile, 2007

Alle fronde dei salici

Alle fronde dei saliciE come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

(Salvatore Quasimodo, Giorno dopo Giorno, 1946)


Spesso si pensa che la poesia sia qualcosa di astratto e che il poeta sia una persona che vive in una sorta di mondo sopra le nuvole. Per fortuna ci sono poesie come questa a riportarci coi piedi per terra.
Si parla del lato scuro della guerra, delle vittime, dell'impossibilita di spiegarne l'orrore. C'è il silenzio di chi non può fare altro che assistere allo sterminio, alle rappresaglie tedesche che non fanno distinzione tra fanciulli, donne e adulti. Ecco allora una poesia di silenzioso lamento, che richiama il salmo 137 della Bibbia. Là si parlava del popolo ridotto in schiavitù a Babilonia, qui di un invasione che mette in luce tutto il lato più duro dell'esistenza, della sopravvivenza. In fondo questa è una poesia per sopravvissuti: in una landa di erba dura e ghiacciata, dove i fanciulli- agnelli portano sulle spalle la loro sofferenza, dove l'urlo delle madri è già un lutto, i poeti sopravvivono. Ma là, dove ogni comunicazione si è rotta, dove anche il palo del telegrafo diviene un crocifisso non esiste gloria: le cetre che ai greci servivano a cantare gli eroi restano mute al vento. L'olocausto della guerra non lascia spazio per canzoni. Nel dominare di colori tra il grigio e il nero, anche l'unico richiamo al verde, i salici, è ricolmo di pianto. Immagine forte quella delle cetre al vento; una poesia vittima delle circostanze, ma per fortuna, ancora alta, capace di sollevarsi, di fare un voto, una preghiera: forse un gesto vano, un oscillare debole e lieve, ma è l'unico segno che, di fronte a un piede straniero e spietato, restituisce una dimensione di debolezza che eleva l'uomo. E in quel mutismo desolato che fa emergere ancora più forti le grida degli innocenti, in quel quadro dove anche la croce non è altro che condanna, il poeta non può fare altro che cantare l'impossibilità di cantare.

25 marzo, 2007

L'infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

(Giacomo Leopardi, Idilli, 1826)

Si tratta di uno spaccato d'esperienza, un idillio, termine che in greco indica un piccolo quadro. Più che di esperire un paesaggio, Leopardi sta intraprendendo un'avventura interiore: è la saga dell'uomo che cerca di intuire la realtà che sta oltre le cose, il concetto di Platone, il numenon di Kant, l'essenza di Aristotele. Solo che Leopardi, grandissimo filosofo, non scrive un trattato; usa il linguaggio più affascinante che l'uomo abbia a disposizione per parlare dell'anima: la poesia.

Ecco allora il poeta davanti a un limite: la siepe, solitaria come l'animo stesso. Siamo di fronte a una rottura dello sguardo: non è possibile abbracciare tutto l'orizzonte. Ma la dimensione che conta ha in realtà ben poco di fisico. Il paesaggio è tutto immaginario, racchiuso nella psicologia dell'infinito, di cui queste poche righe rappresentano forse l'apice di ciò che è stato scritto da mano umana fino ai giorni nostri.
Vediamo allora di capirne un po' di più. La prima parte è un percorso che va dall'esteriorità, la siepe, all'interiorità: l'esclusione dello sguardo dall'infinito spaziale rimanda l'uomo ad un senso di ridimensionamento che però viene immediatamente superato attraverso l'immaginazione. E' il pregio del limite, dell'indefinito: non uso a caso questo secondo termine. Per Leopardi non si tratta tanto di vedere, ma di definire, di porre dei confini: è un sentimento molto più intellettuale di quello che lascia pensare il verso finale della poesia, il naufragio. L'uso del verbo fingere, nel pensier mi fingo, è molto significativo in tal senso: è un termine latino proprio della scultura, e la scultura è definizione di qualcosa che prima era indefinito, il trarre dall'informe qualcosa di formato, con dei lineamenti ben precisi (almeno fino all'avvento dell'astrattismo). Leopardi, sebbene abbia lo sguardo mutilato, tenta di scolpire un paesaggio, e ci riesce, paradossalmente, sedendo e mirando: demiurgo immobile, con la mente delinea mondi sovrumani, si scopre a stretta somiglianza di un creatore, anche se creatore non è del tutto, ma plasmatore sì. C'è una sorta di timore in tutto questo, l'uomo posto davanti a sovrumani silenzi, capisce di essere molto più grande di qualsiasi orizzonte, comprende di potere abbracciare l'infinito.

La seconda parte è un ritorno parziale all'esteriore, una traslazione dell'incanto: non una rottura, si badi bene, non c'è un enjambment, semplicemente un punto, prima di andare a conoscere una nuova dimensione dell'infinito: quella temporale. Non siamo più di fronte a una scultura, a una circostanza spaziale, bensì al tempo, inteso in modo quasi agostiniano, alla durata quindi. E la forma d'arte più vicina alla temporalità è senz'altro la musica, con il suo senso, l'udito. Ecco allora lo stormire del vento, che sembra riportare la finitezza, il definito contorno delle cose vicine, queste piante. Ma nel contempo ecco presentarsi l'eterno, il ciclo dello scorrere del tempo, con le stagioni passate da sempre legate a quelle presenti, ecco l'apparire di quel vocabolo, l'immensità, qualcosa di immisurabile che però è vicino: dalla lontananza di quello infinito silenzio, si arriva a questa immensità. E' una nuova prospettiva, una immersione tale da fare annegare i pensiero: ma il naufragare in questo mare indefinito, riduce tutte le distanze; non più raffigurazioni, ma coinvolgimento, non più spazio distanziale, ma durata eterna.

La chiave di volta è il paragone, vo comparando, del finito all'infinito, che da sempre, sempre caro mi fu quest'ermo colle, è lì, a disposizione dell'uomo: il limite è la porta che dischiude il senza limite, il perimetro della circonferenza apre a tutto quello che sta fuori. Ma siamo uomini, ci tocca di vivere su questa soglia, su questo filo tra questo e quello, nel tentativo di definire l'infinito, nel pensiero dell'infinito stesso, in cui ci si tuffa, lasciandosi annegare in un mare sorprendentemente dolce.

13 marzo, 2007

Mare

M'affaccio alla finestra e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l'acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d'argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?
(
Giovanni Pascoli, Myricae, 1891, 1903)

Il tema dell'affacciarsi alla finestra è ricorrente nelle poesie di Pascoli: è parte preponderante di quella poetica dello stupore che contraddistingue tutta la sua opera. L'atteggiamento di chi resta alla finestra simboleggia da un lato una volontà di osservazione partecipata della natura, dall'altro la lontananza sofferta, il distacco, la mancata unione assoluta. In questi versi prevale il secondo aspetto. Di fronte ad una natura che sembra amoreggiare, tra palpiti e carezze, in una sorta di amplesso cosmico, il poeta può solo osservare e domandarsi, senza comprendere fino in fondo. Non esiste risposta al mistero della natura, non c'è ponte di cui si veda la fine: solo un accenno di percorso, fantastico e luminoso, ma che non lascia altro che una domanda angosciosa sul destino delle umane cose e della natura.

Un'altra tematica preponderante in questa poesia è quella del movimento, del divenire: stelle che passano, batti e ribatti di guizzi e palpiti. Ovunque c'e vita, moto: quello che rimane ignota è la direzione. Dove portino i ponti pare una domanda irrisolta e tutta umana: i laghi restano sereni, vivi ma per nulla incupiti da un interrogativo che invece turba lo spettatore che osserva il trapassare delle cose, perso in un mare magnum di cui non si scorge mai la riva opposta. Per chi dunque tutto ciò? A cosa porta? Nessuna risposta, l'alba esteriore, il chiarore nuovo è un elemento fisico che non si trasporta nell'anima. E si resta sospesi, con un senso di naufragio, tra meraviglia e disarmonia.

05 marzo, 2007

Portami il girasole ch'io lo trapianti

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
(
Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)

L'invocazione iniziale è un verso di quelli che si stampano nella memoria: portami il girasole ch'io lo trapianti. C'è tutta la forza di una preghiera e la debolezza del poeta, la cui anima è un terreno bruciato dal salino, una ferita di una terra dolorosa. Il girasole, pianta magica e dalle foglie gialle, come quei limoni cantati da Montale in altre liriche, è quasi reso in maniera antropomorfica, con quel volto giallino che chiude la prima quartina. Ma più che un uomo è un angelo, una divinità, un mago, che tende verso il cielo azzurro per ansia e bramosia di infinito: non un girasole, il girasole.

La seconda quartina esprime tutto il disincanto tipico della poetica di Montale: anche il cielo non è che illusione, ma una bellissima vanità, una musica che compensa l'inconsistenza di tutte le cose. Ecco il significato del passare dalla corporeità a sensazioni che vanno oltre l'estensione: la vista e poi l'udito, che dei sensi è il più volatile. La constatazione che lo svanire è la ventura delle venture ha anch'essa un che di magico: il morire nella musica, che è la cosa più vicina alla poesia, è un destino che ha in sé qualcosa di meraviglioso. In questo senso questa strofa simboleggia alla perfezione quella amara meraviglia che percorre come un filo continuo tutta la poetica di Montale.

L'ultima parte riprende l'inizio del componimento per quanto riguarda l'invocazione e prosegue il tema del dissolvimento: trasparenze e verbi quali vapora fanno capire quanto ci stiamo allontanando dalla materialità per giungere all'essenza. Il girasole è ormai simbolo di un'ebbrezza quasi mistica, che rischiara la visione delle cose, estremo tentativo di una poesia che è anche filosofia, teoria (nel senso greco del termine: vedere) della luce, qualcosa di fronte al quale non si può fare altro che impazzire. Quello che sta chiedendo Montale alla sua Musa non è conoscenza, è qualcosa di più, è quello che ai poeti, e anche a me, piace chiamare Illuminazione.