Ultimo sogno
Da un immoto fragor di carrïaggi
ferrei, moventi verso l'infinito
tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...
un silenzio improvviso. Ero guarito.
Era spirato il nembo del mio male
in un alito. Un muovere di ciglia;
e vidi la mia madre al capezzale:
io la guardava senza meraviglia.
Libero!... inerte sì, forse, quand'io
le mani al petto sciogliere volessi:
ma non volevo. Udivasi un fruscio
sottile, assiduo, quasi di cipressi;
quasi d'un fiume che cercasse il mare
inesistente, in un immenso piano:
io ne seguiva il vano sussurrare,
sempre lo stesso, sempre più lontano.
(Giovanni Pascoli, Myricae, 1891, 1903)
Qual è l'ultimo sogno dell'uomo, quel sogno estremo oltre cui si cessa di sognare? Siamo su un confine, quello tra la vita e la morte, dove a tutto il trambusto dell'esistenza che sembrava infinito, si sostituisce, in maniera inaspettata, il silenzio. Il permanente fragore, la durezza quasi fastidiosa ed espressa dal suono nervoso, sia come significato sia come pronuncia, di schiocchi e fremiti, si esaurisce all'improvviso. E' quasi un'illuminazione insperata, è quasi un'esclamazione: ero guarito. La corsa verso l'infinito è finita: come l'alito su una finestra che scompare, così il male si dilegua. Anche i suoni della poesia si addolciscono nella rima ciglia - meraviglia che accompagna la visione della madre, da tempo morta. Non c'è spazio nemmeno per la sorpresa: sarebbe un movimento troppo brusco.
La seconda quartina è solo contemplazione: un lento movimento delle palpebre dischiude la visione dell'estrema pietà di una madre presente al capezzale. Una Pietà quieta, non sofferente: forse un'eco dell'archetipo della ricongiunzione ai propri cari, che da sempre permea l'animo umano. Ma la quiete della morte non ha affatto un significato negativo, l'ultimo sogno non è un incubo di inerzia e precipizio nel vuoto: ecco l'aggettivo del riscatto, sottolineato da un punto esclamativo: Libero! Una nuova illuminazione, con una parola quasi fanciullesca, quasi da gioco a nascondino, libero dopo una corsa verso la toppa, libero finalmente da qualsiasi affanno, persino dalla figura materna che viene contemplata ma non abbracciata, libero persino dalla volontà: volessi: ma non volevo. Inerte, perciò, ma di un'inerzia che non è immobile, che non è monumento di marmo freddo su una tomba. Al contrario, è un nuovo percorso, una vita nuova e misteriosamente indefinita: un fiume che si muove verso l'infinito, senza alcun ostacolo. L'affanno della vita precedente è annullato, ora siamo su un altro piano, dove non esistono carriaggi ferrei che ci trasportano, desideri e passioni che quasi ci manovrano e ci frustano. Siamo in balia del fruscio di un fiume, così leggero che sembra un alito di vento, un suono indefinito, un sussurro misterioso e vago che si perde nell'ignoto. Ecco allora l'ultimo sogno, libero dalle passioni, libero dalle figure che ci hanno donato la vita e ci seguono fino all'ultimo istante, quello della solitudine estrema. E' un sogno di libertà, l'ultimo sogno dell'uomo, o forse il primo e l'unico, ma riconosciuto solo alla fine.