Commenti di poesia: dicembre 2006

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28 dicembre, 2006

Natura

La terra e a lei concorde il mare
e sopra ovunque un mare più giocondo
per la veloce fiamma dei passeri
e la via
della riposante luna e del sonno
dei dolci corpi socchiusi alla vita
e alla morte su un campo;
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
sopra le isole originali cantando:
qui si prepara
un giaciglio di porpora e un canto che culla
per chi non ha potuto dormire
sì dura era la pietra,
sì acuminato l'amore.

(Mario Luzi)

Terra, acqua, fuoco (fiamma) e aria (i passeri che fluttuano): nel giro di tre versi il poeta ci precipita nell'abisso della Natura. L'elemento che ha la prevalenza è l'acqua, con il mare citato due volte nel giro di due righe: si tratta del più avvolgente, del più pervasivo e stratificato, simbolo di movimento e profondità. L'acqua è vita, ed è come se tutto, dal cielo alla terra, ne fosse intriso: anche la morte non è poi altro che un aspetto della vita stessa, e quei corpi socchiusi alla vita e alla morte, sembrano corolle di fiori notturne in attesa di nuove linfe e nuovi mattini.

Il segreto ultimo ed originario della Natura rimane però nascosto e inafferrabile: il canto del poeta cerca di riscoprire il fulcro originale della vita, volando come un uccello folle e instabile, voltatile indistinto rispetto ai passeri del primo verso, il poeta cerca l'indistinto, la confusione totale con la Natura, confusione che è già presente anche nei suoi termini ultimi e contraddittori, ma che ha bisogno di essere detta, cantatata. Si parla dell'uomo che non ha riposo, quello che cerca il verso che dischiuda l'armonia, l'uomo che insegue le sue passioni che si infrangono contro lo zoccolo dell'essere, duro come pietra, l'uomo ferito che ancora sanguina, ma che non rinuncia a cercare un giaciglio che sarà porpora, rosso come il suo sangue, perché l'uomo non è altro dalla Natura: è la Natura stessa che mai doma, insonne e inquieta cerca se stessa, la parola per dirsi o per perdersi, che poi è lo stesso, e quella parola è canto che culla, canzone e movimento d'ali, un recupero della coscienza che scopre l'incoscienza, la vita, tutta la vita che perpetuamente si intona romanze d'amore.

05 dicembre, 2006

I pastori

Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d'acqua natía
rimanga ne' cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d'avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh'esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l'aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io cò miei pastori?


(Gabriele D'Annunzio, Alcyone, 1903)

Il primo verso è tra quelli immortali della nostra poesia. Settembre, tra fine estate ed inizio autunno, tempo di cambiamento, tempo di nostalgia. I pastori del titolo rimangono come sospesi tra terra e mare: due realtà lontane ma vicine nello stesso momento, con quell'Adriatico che è verde come i pascoli dei monti. E con loro rimane in sospensione anche il poeta, coinvolto appieno nel passaggio, nella transumanza delle greggi sin dalla prima parola Andiamo.

Nella seconda strofa troviamo ancora quel miscuglio, quella continuità tra acqua e terra, che avevamo nella prima parte. Questa volta si tratta di acqua che sgorga direttamente dalla roccia, dai fonti alpestri, acqua che diventa sangue, scende nei cuori e fa fiorire il coraggio di guidare le pecore verso nuove primavere.

La commistione tra terra e acqua culmina nel verso centrale della poesia: i pastori si muovono attraverso un erbal fiume silente, secondo una tradizione che si ripete da secoli e ancora, tra il liquido e il solido: isciacquìo e calpestio.

La maggior parte dei critici sottolinea come in questo componimento sia presente il recupero di una primigenia comunione con la natura (Pazzaglia). Altri mettono l'accento sull'importanza del paesaggio. Tutte cose vere, ne abbiamo appena parlato. Ma mi piace pensare che il vero tema sia un altro: il divenire, il passaggio. Argomento eracliteo del tutto scorre, uomini che da secoli ripetono gli stessi gesti, come le pecore di cui sono la guida, eppure ancora vanno. C'è tutta la potenza del divenire, in questi versi che migrano continuamente dal tono aulico ai termini contadini, e c'è un lato meno conosciuto, forse offuscato dal superomismo, che spesso stereotipa la figura di D'annunzio: l'impossibilità della completa partecipazione al tutto della natura. Non ci si bagna due volte nello stesso fiume: dall'acqua di fonte, alla terra, per tornare all'acqua, in una deriva che non si ferma, che confonde con la natura, ma non porta mai alla completa fusione. E' la meraviglia del divenire rispetto all'essere. Ancora fortunati i pastori, che col loro gesto grezzo si avvicinano al senso del perenne migrare, pur senza coglierlo, pur confondendosi con la natura quasi come le pecore il cui vello si mischia alla sabbia. Intellettuale, invece, il poeta che dalla sua distanza si domanda Ah perché non son io cò miei pastori? E l'Andiamo partecipato del primo verso scorre via, verso un Adriatico selvaggio, nostalgia di tutto quello che non è stato mai.